di Silvia Castellanos
Il mio amico Pedro Ampudia dice che è venuto al mondo per passare l’estate. Se la mia vita fosse fatta di estati, avrebbe fissa dimora a nord della provincia di Zamora, nella regione di Los Valles, dove ho trascorso le estati della mia infanzia. E’ terra di fiumi ricchi di acqua, come il Tera e l’Orbigo, di valli fertili e di piccoli villaggi. Qui i terreni irrigui si alternano a boschi da pascolo, il cui paesaggio comprende freschi ontani, sambuchi o frassini dislocati sapientemente sulle sponde dei suoi corsi d’acqua. Di tutti i fiumi de Los Valles il mio è il Tera. Quasi tutti pensano che nasce nel lago di Sanabria, quando in realtà è la Peña Trevinca che lo genera; il lago semplicemente lo culla appena nato prima che si avventuri per la gola che lui stesso ha modellato. Quando il Tera è diventato adulto, e ha conosciuto chiuse e cascate, entra nella valle del Tera. Questo, solo questo, è il mio fiume. Nelle sue acque il mio trisnonno ha macinato il grano, e così mio bisnonno, mio nonno e i miei zii. E’ nel Tera che ho imparato a nuotare e qui mio padre mi ha insegnato a disporre le reti per catturare i gamberi e a gettar la canna col cucchiaino per pescare una trota, che ancora deve abboccare.
Il Tera, l’Orbigo, l’Eria e il Cea sono stati e sono fiumi che hanno molto altro da raccontare: di villaggi neolitici e di asturiani che hanno costruito villaggi come Camarzana de Tera o Las Labradas di Arrabalde. Sulle sue sponde sono fiorite anche città romane come Requejo di Santa Cristina de la Polvorosa e Camarzana de Tera e si sono fermate e accampate intere legioni, come la Legio X Gemina a Rosinos de Vidriales, dal cui calore nacque la città di Petavonium. Dopo la caduta dell’Impero romano non sappiamo per certo cosa ne fu di questi insediamenti, ma l’invasione musulmana diede sicuramente il colpo di grazia ad una decadenza che si era lentamente trascinata fino a conoscere quell’epilogo. Quello che sappiamo è che i secoli IX e X furono decisivi per questa regione. Fu in quell’epoca che il regno delle Asturie comincia ad aprirsi la strada verso il Duero. Nel 878 le truppe di Alfonso III, sulle rive dell’Orbigo sconfissero i musulmani nella battaglia di Polvoraria. Dopo questa vittoria vi furono tre anni di tregua durante i quali questa regione si incorporò definitivamente al regno. Di quella battaglia rimane memoria nei toponimi di alcuni villaggi: Santa Cristina, Fresno, Arcos, Manganeses… tutti della Polvorosa o della Polvoraria. In questo territorio cominciarono così a stabilirsi villaggi la cui struttura è figlia del ripopolamento. Città, luoghi di residenza ed anche chiese, santuari e perfino monasteri: San Miguel de Castroferrol, in quello che oggi è Colinas de Trasmonte, San Pedro de Zamudia, San Adrián del Valle o San Miguel de Camarzana. Molti di loro sono stati certamente fondati da san Fruttuoso in epoca visigota, e rifondati in questa epoca da san Genadio. Sfortunatamente, questi antichissimi monasteri scomparvero anche in forma prematura, nella maggior parte dei casi, senza lasciare alcuna traccia archeologica. Tutti, ad eccezione di uno, il più importante. Sulle rive del Tera, nel villaggio di Santa Marta, si erge ancora oggi in tutta la sua maestosità quella che fu la chiesa di uno di questi cenobi: il monastero di Santa Marta de Tera.
Il monastero di Santa Marta de Tera
Il villaggio porta il nome della santa in onore della quale venne eretto il tempio. Non si tratta della santa Marta di Betania, no, ma di una santa Marta molto più vicina, quella di Astorga. Patrona di questa città e martire dei primi secoli del cristianesimo ispanico, il suo culto e la sua devozione conobbero il momento culminante nell’Alto Medio Evo. Le prime notizie del tempio arrivate a noi sono del 979 attraverso una lettera di donazione. E’ molto probabile che vi fosse un cenobio antecedente a questo, dal momento che nelle sue immediate vicinanze sono stati ritrovati resti romani e visigoti. I re di León hanno sempre offerto protezione e sono sempre stati generosi con Santa Marta, come testimoniato da donazioni e privilegi. Nel 1063 i re Fernando I e Donna Sancha ne fanno dono al vescovo di Astorga, Ordoño, in segno di riconoscenza per il suo essersi recato fino alla musulmana Siviglia al fine di recuperare delle reliquie cristiane per la nuova basilica in costruzione a León, tra le quali quella di san Isidoro. I domini del monastero si estesero alle valli dell’Orbigo, del Tera, Valverde, Vidriales fino a Tábara a sud e a Sanabria a nord. E così, como scrisse D. Manuel Gómez Moreno, colui che riscoperse la chiesa nel 1906:
Vi è qui una sorta di Lourdes nata otto secoli fa; un santuario in cui i ciechi recuperavano la vista, i sordi l’udito e gli storpi riprendevano a camminare; nel quale si curavano gli invalidi, si guarivano gli infermi, così come i lebbrosi, e i demoni venivano scacciati dai corpi oppressi…
Adesso non sono più otto secoli, ma nove, ma per tutto il resto il professore non si è sbagliato. L’importanza di questo monastero fu indiscutibilmente associata alla grande fama dei miracoli operati dalla santa. Lo stesso Alfonso VII di León ne scrisse nel 1129 quando si ristabilì da una grave malattia, dopo essere andato in pellegrinaggio a Santa Marta. Se a questo si aggiunge che Santa Marta si trova in un itinerario secondario del Cammino di Santiago, il sanabrese, si comincerà a comprendere l’importanza di questo luogo. La decadenza sarebbe sopraggiunta più tardi. Si racconta che ebbe inizio quando la città di Astorga reclamò per sé le reliquie della santa. Senza i miracoli come richiamo, i pellegrini cominciarono ad abbandonare questo cammino e il monastero cominciò a perdere peso. Ma, nonostante tutto, rimase in vita come abbazia dei canonici fino al secolo XVI.
La chiesa, così come la vediamo ancora oggi, tra l’erba ben tagliata e verdissima, attorniata dalle tombe del cimitero disposte come autentici cavalieri nell’atto di vegliare perennemente su di essa, è un’opera dell’XI secolo, eretta nel 1077; la sua navata dovette essere restaurata già nel XII secolo a causa di un incendio. E’ uno dei primi romanici della provincia e forse il più bello. Bello per la ricchezza delle sue decorazioni, per l’originalità delle sue forme e per il suo equilibrio. Il suo stato di conservazione è perfetto grazie ai puntuali interventi che nel corso degli anni sono stati realizzati. Il che ha qualcosa di miracoloso. Si direbbe che la santa non ha mai smesso di intercedere anche da lontano per il suo santuario e per la città nella quale ha riposato in pace per molto tempo.
Ed eccola, con la sua sola navata che è un’autentica meraviglia, con la sua pianta a croce latina, con il tamburo nella crociera e il coro a pianta rettangolare. Il coro! In esso è riposta quasi tutta la bellezza di Santa Marta, e la sua originalità. Molto diverso dal romanico ispanico, questo coro ci riporta al preromanico asturiano e al visigoto di San Pedro de la Nave, ed anche al mozarabico di San Miguel de Escalada. Due colonne con i loro contrafforti incorniciano l’abside verticalmente, mentre altri due contrafforti con la cornice a scacchiera jaqués lo collegano orizzontalmente. In una di queste colonne vi è un capitello tra i più belli, a dispetto della corrosione: un’epifania, un tema inatteso in questo luogo, ma in perfetta sintonia con ciò che fu questo tempio, ovvero una chiesa di pellegrinaggio. Tre interstizi, i due laterali ciechi e quello centrale con un lucernario, ci ricordano il numero della trinità. Tutti e tre hanno un archivolto a doppia campata, rifiniti con una modanatura a scacchiera e con gambi dai capitelli magnificamente lavorati: una sirena dalla coda doppia, simbolo della lussuria; leoni che si affrontano; gambi e decorazioni vegetali. Nelle parti laterali dell’abside vi sono lo stesso tipo di finestra e due contrafforti che servono a bilanciare la spinta della volta interna. Le navate della crociera seguono lo stesso schema, anche se in questo caso, essendo molto più alte dell’abside, le linee di imposta sono quattro. Per apprezzare la bellezza dell’insieme costituito da coro, crociera e tamburo bisognerà zigzagare tra le tombe del cimitero, che lo circondano. State attenti però, perché molte delle tombe antiche si riconoscono solo da una piccola croce e da un monticello di terra. I volumi, l’equilibrio, la pietra dorata e il Tera che scorre alla sua sinistra, fanno da colonna sonora a questa cartolina che ha più di novecento anni.
Su questo muro, verso sud, rivolto verso il fiume, si apre una facciata contornata da una semplice fascia di rosette. Qui l’attenzione è richiamata dalle due colonne marmoree degli stipiti, recuperate certamente da qualche costruzione romana o visigota. I capitelli che fanno loro corona lasciano intuire elementi vegetali, arpie, sirene e leoni. Ma i protagonisti principali sono le due sculture dal collo rotondo poste sulle unghie della facciata, che rappresentano due apostoli: quello sulla destra è di difficile identificazione, sebbene vi sia chi vi ha voluto riconoscere san Pietro, e quello sulla sinistra è Santiago. Santiago lo riconoscerete facilmente perché è un Santiago pellegrino, col suo bordone, la sua bisaccia e la sua conchiglia. Del XII secolo, è con tutta probabilità, la prima rappresentazione di Santiago pellegrino che si sia conservata fino ad oggi. Sul muro a nord vi è un’altra piccola facciata che presenta un’altra scultura, raffigurante san Giuda Taddeo. Queste statue ricordano gli apostoli di San Isidoro a León, e certamente la loro ubicazione non è quella originale.
Tutte le gronde della chiesa sono a scacchiera e presentano una notevole collezione di modiglioni. I due di testa sono di magnifica fattura. Molti di loro sono modiglioni arrotolati, dall’aria mozarabica della quale ho fatto cenno prima: animali, mostri, contorsionisti ed esibizionisti sono alcuni di maggior richiamo, alla cui ricerca vi potete dedicare per gustarne la bellezza.
Adesso che abbiamo assaporato l’esterno della chiesa è giunto il momento di entrarvi. E dentro la storia si ripete. L’abside e la crociera calamitano l’attenzione ed è difficile distogliere lo sguardo da essi. Tutti gli archi sono sopraelevati e quello di trionfo poggia su due colonne decorate con magnifici capitelli. A destra, decorazioni vegetali, e a sinistra una rappresentazione dell’assunzione dell’anima. Quest’ultima appare incorniciata in una mandorla mistica trasportata da due angeli. Questo tema, molto comune nell’arte paleocristiana, lo è in misura molto minore nel romanico. Ed anche per questo il capitello ha la sua magia, e negli equinozi di primavera e di autunno la si comprende molto meglio. In questi giorni la luce dei primi raggi del sole mattutino entra attraverso l’oculo aperto dell’abside e lo illumina: Ego sum lux mundi, (Juan 8,12), Sono la luce del mondo. A Santa Marta questa luce, la divinità che giunge, e in che modo, da est, si unisce all’anima del capitello conducendola alla salvezza. E’ il miracolo della luce, che rivela anche l’importanza e la simbologia della luce nel romanico, tacciato molto spesso di essere oscuro e tenebroso. Tra i restanti capitelli dell’abside spiccano quello di Davide, intento a suonare l’arpa davanti al re Saul, e quello che è forse il sacrificio di Isacco che preferisco: in esso è rappresentato il montone che, parafrasando Juan Ramón, si direbbe di cotone.
Tutte le coperture della chiesa sono di legno, ad eccezione della volta a vela che copre l’abside. All’ingresso della chiesa si trova la facciata occidentale, che non è visibile dall’esterno. Si tratta di una ricostruzione, in quanto la facciata era molto deteriorata. I resti dei due grandi contrafforti fanno pensare che qui vi fosse una torre che aveva funzione di nartece, come in tante chiese di pellegrinaggio. Oggi al suo posto vi troviamo il palazzo rinascimentale dei vescovi di Astorga. Costruito da D. Pedro de Acuña nel 1550, venne utilizzato inizialmente como residenza estiva e di riposo per i prelati astorgani e dall’inizio del XX secolo come casa rettorale fino al 1981, quando venne abbandonata. E nel 2008 la determinazione di questo piccolo villaggio fece sì che il vescovado, le istituzioni locali e la Fundación del Patrimonio Histórico de Castilla y León unissero le forze per permettere il restauro integrale della chiesa, ed anche del palazzo. E’ in quest’ultimo che vengono ricevuti oggi i visitatori e vi si è aperto un piccolo museo con oggetti che vanno da lipsanoteche dell’XI secolo ritrovate nella chiesa (reliquiari con una collezione molto ampia di ossa e ossicini), a messali e oggetti liturgici di varie epoche, tra le quali spicca un caliz limosnero1 di Fernando VI. Vi è anche uno spazio dedicato al Cammino di Santiago, ovviamente, ma probabilmente l’oggetto più importante è l’amore che gli abitanti di Santa Marta nutrono per il loro tempio, ed orgogliosi come sono del proprio passato, sono riusciti a far sì che questo importante sito de pellegrini di epoche lontane abbia recuperato qualcosa del suo antico splendore.
Prima di lasciare Santa Marta fate una sosta presso le due statue che fiancheggiano la porta di ingresso al nartece. Nessuna di loro è situata nella sua ubicazione originale; forse erano collocate nella facciata ovest, quella scomparsa, dove avrebbero formato un complesso teofanico. Quando nel 1908 Gómez Moreno scrisse a proposito della chiesa di Santa Marta, parlò del Pantocratore nascosto in un angolo della chiesa e pieno di polvere: Una delle nostre immagini ieratiche più antiche, certamente dell’XI secolo. Poco tempo dopo la statua scomparve. Si racconta che il parroco lo vendette nel 1926 ad un antiquario per sette mila pesetas, mosso dalla necessità di raccogliere fondi per riparare il tetto della chiesa. Quello che vedete è una copia che lo stesso parroco commissionò. L’originale è finito nel RISD Museum di Providence, a dieci mila chilometri da Santa Marta de Tera.
Vi invito alle mie estati, alla mia vita, ad avvicinarvi a Santa Marta e a Los Valles, se siete pellegrini, o ad uscire dalle autostrade se siete turisti, deviando di pochi chilometri, per godere di questa gemma unica dove l’acqua, la pietra e la luce continuano ad operare miracoli.
1 Questi calici venivano chiamati anche dei patriarchi o elemosinieri. E’ certo che fu Carlo I ad istituirne l’usanza, che si mantenne fino ai tempi di Alfonso XIII, con la quale i monarchi spagnoli avrebbero offerto al Bambino Gesù, il giorno dell’Epifania, tre calici, per ricordare l’oro, l’incenso e la mirra che i tre Magi di Oriente regalarono al Figlio di Dio che nasceva a Betlemme. Sembra che sia Carlo I, che suo figlio Felipe II, mettevano in scena l’offerta consegnando nella Messa solenne tre calici d’argento placcati d’oro che contenevano le sostanze menzionate. Il primo lo faceva nella cappella del Palazzo, ed il secondo nella chiesa del monastero dell’Escorial. Dopo la celebrazione religiosa i vasi sacri venivano regalati ad istituzioni religiose, generalmente previa richiesta da parte delle stesse, a volte per iniziativa reale e in alcune occasioni, su richiesta specifica privata. Anche l’elemosiniere maggiore si incaricava di redistribuirlo tra le parrocchie ed i conventi che aveva più a cuore. Questi calici venivano chiaramente identificati dalle iscrizioni che ricordano la loro origine e le armi reali raffigurate. Realizzati normalmente da argentieri reali, sono sempre di grande qualità, sebbene molto spesso non siano decorati.
1 risposta a Acqua, pietra e luce: Santa Marta de Tera e il miracolo equinoziale