Racconti di un pellegrino russo. (Introduzione)

di Cristina Campo

Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro.

Questa apertura, tra le più ammalianti della letteratura di ogni paese – comparabile a quella dell’Amleto o della Storia del facchino di Bagdad – inaugura insieme un grande trattato spirituale, un romanzo picaresco, un risplendente poema russo e una fiaba classica. Nel misterioso testo anonimo trascritto sull’Athos dall’abate Paissy del monastero di S. Michele Arcangelo dei Ceremissi presso Kazan’ intorno al 1860, la fiaba per una volta si mostra senza maschera, mostra cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto di un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo che è dietro quello vero soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti.                                                          Come quell’eroe nordico che a ogni prezzo voleva imparare a rabbrividire, il Pellegrino russo è risoluto a procedere all’infinito dinanzi a sé oltre le steppe e le foreste, le città e i villaggi, oltre l’interminata curva del globo se occorra, purché gli sia svelato il senso di tre parole dell’apostolo Paolo udite per caso entrando in una chiesa: Pregate senza intermissione. Di questo comando, che gli appare subito fatidico ed iperbolico (come pregare senza intermissione, occupati come siamo a pressoché ininterrottamente vivere?), il Pellegrino trova abbastanza presto la chiave. Un incantevole genio, quello starets che è difficile dire se egli lo incontri in corpo o in ispirito, tanto la morte che li separa poco dopo si rivela incidente trascurabile, dal quale il loro estatico dialogo non è neppure momentaneamente sospeso, gli consegna una antica e possente formula sacra, una invocazione brevissima nella quale è contenuto il Nome che è sopra ogni nome e al quale piegano il ginocchio il cielo, la terra e gli inferni: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me. Altri due talismani accompagnano il dono e hanno, come lo schiavo della lampada di Aladino, il compito di insegnarne l’uso: un libro dal titolo singolare: Filocalia o Amore della Bellezza, e un rosario ritualmente intrecciato, ogni nodo formato da sette nodi, sul quale scandire infinitamente la formula. Il racconto del Pellegrino russo non è se non la cronaca della sua stupefatta ed ebbra convivenza con la Preghiera del Nome.                                                          È questa la gemma portentosa il cui fulgore protegge il corpo e illumina l’intelletto, disvela cose lontane e ammansisce le fiere, vince tutti i cuori, sazia tutti i bisogni e tramuta tutti i paesaggi. Non solo: è anche una presenza, vivente al punto, e al punto dolcemente imperiosa, che un bel mattino è la Preghiera a svegliarlo, e dopo sarà sempre lei a sollecitarlo, a stringerlo nel suo anello di prodigi, nella sua mandorla di beatitudine. Stretto tra le braccia di questa invisibile principessa che lo rapisce in volo, il Pellegrino giunge a sperimentare la condizione tra tutte al mondo deliziosa: non lui prega la Preghiera, ma dalla Preghiera è pregato, non lui ne vive ma ne è vissuto, non il suo cuore scandisce le divine parole ma ne è divinamente scandito. All’ingresso del celeste labirinto, l’apostolo Paolo, impartendo quel suo strano comando, Pregate senza intermissione, sapeva bene ciò che questo significa: Vivo autem, iam non ego, vivit vero in me Christus… Ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus…                                              Procede così il Pellegrino, accompagnato dalla profonda voce recitante dei 35 Padri antichi che nella Filocalia lasciarono sulle virtù della Preghiera del Nome le illuminazioni della loro esperienza. Il vecchio libro è l’abbagliante teoria; il racconto del Pellegrino la biografia, il passaggio dal voi magisteriale all’io tremante ancora del discepolo appena iniziato, dal metodo alla vita. Dai maestosi trattati sulla grazia di sant’Agostino alla pura lirica delle Confessioni. Intorno a questa ubriacante storia d’amore tra il Pellegrino e la sua Preghiera, si disvela e si costella da solo, a ogni passo, un moltitudinario, meraviglioso mondo. Che non è per nulla diverso, all’apparenza, da quello di un altro poema metafisico russo, le Anime morte di Gogol. Ma queste, per l’appunto, sono le anime vive, celate dietro le morte come il mondo che sta dietro quello vero. È la Russia eccelsa e popolare, verticale ed ascetica che gravita e si alimenta intorno alle lavre e ai santuari, agli eremitaggi dei suoi taumaturghi e alle sue divinissime liturgie: la Russia che, proprio perché rimasta totalmente russa, conserva in sé come un sigillo imperiale, la forma precisa di Bisanzio.

Monastero della Grande Lavra, Monte Athos Dovunque passi il Pellegrino, questa estatica Russia esce dall’ombra. Amorose lucertole strisciano fuori per ogni dove da fenditure e crepacci, brulicano soavemente verso quel raggio regale: il Nome reiterato nella Preghiera. È la mirabile, mortalmente silenziosa massoneria degli oranti. Nelle stazioni di posta, tra i deportati, sulle soglie delle osterie, nella chiara casa patrizia raggiante di icone e di libri preziosi, il cui signore si china a calzare di fresche fasce i piedi polverosi del Cristo itinerante, non c’è bisogno di domande.  Un lieve, costante tremito della lingua mossa dalla incessante invocazione, una visionaria letizia nello sguardo, pochi accenti di lancinante dolcezza: il riconoscimento è fulmineo, l’intimità totale tra quei piagati dalla stessa grande avventura; e le storie escono dalle storie, come le vecchie concentriche bambole russe, una più straordinaria dell’altra e senza alcuno stupore.                                                                                                                                      Così nelle Anime morte nessuno dei venditori d’anime si meravigliava dell’inconcepibile mercato proposto. Lo stesso Gogol, come è noto, intendeva comporre, e in parte anche compose verso la fine della sua vita, il poema dell’altra Russia, questa delle anime vive celate dietro le morte. Se inesplicabilmente decise di abbandonare e distruggere quel poema, forse è perché proprio allora, in qualche luogo, lo stava tracciando la mano del Pellegrino. Di tutta la miracolosa vicenda forse è questo il miracolo più vistoso: che essa sia divenuta un racconto: con la sua continuità strutturale, i suoi augusti e innocenti refrains omerici, la sua maestria narrativa concessa, in puro soprammercato, all’intuizione spirituale; e che il minimo dei suoi capitoli; quello per esempio nel quale il Pellegrino è derubato dei suoi due libri, o L’altro sulla guarigione delle gambe assiderate, non siano letterariamente meno incandescenti della scena di Anna Karenina alle corse o della confessione di Madame de Clèves.                                                                                                    Che questo libro supremamente indifeso esista, infine, che qualcuno abbia pensato di scriverlo e L’abbia scritto così. E, per converso, che proprio in questa forma letteraria così candidamente determinata, così inconsapevolmente adorabile, si sia avvolto il grande segreto spirituale dell’Oriente cristiano. Il padre Ireneo Hausherr della Compagnia di Gesù, al quale dobbiamo pagine di diamante sopra i maestri spirituali d’Oriente, scrisse che il Pellegrino non è che un discepolo fedele di una dottrina vecchia di seicento anni: l’esicasmo, così come la filocalia che lo nutre, sebbene pubblicata in Russia nel 1782, non è che una raccolta di manoscritti risalenti ai tempi d’oro della scuola, nei primi secoli. Sia o non sia stato redatto il manoscritto dall’abate Paissy al Monte Athos, sulle testimonianze di un altro monaco della Montagna sacra che avrebbe incontrato il Pellegrino, esso prova per lo meno che gli atoniti1 non hanno dimenticato il metodo di orazione fisica e scientifica un tempo esposta dal monaco Niceforo il Solitario e da Gregorio del Sinai. Per poter toccare senza irriverenza questo aspetto del libro del Pellegrino – la sua qualità di trattato, quale si spiega soprattutto nella seconda parte – sarebbe necessario fermarsi un attimo sul concetto stesso di orazione, che in Occidente sembra essere entrato in piena eclissi e non soltanto nella breve, recente egira infernale, nella quale l’idea stessa di orazione è stata radicalmente raschiata via dalle coscienze. Gli equivoci si andavano accumulando su di essa come densa polvere da almeno un centinaio di anni.                                                                                                                                                Contro tutte le grandi autobiografie spirituali, contro tutti i testi classici di ascetica e mistica, per quelli che ancora la praticavano l’orazione non sembrava avere più, se non in certi chiostri, altro volto che quello volontario della petizione. Chi la confessava più per ciò che realmente era, via regale di trasmutazione dell’anima in vista dell’unione con Dio e dell’assimilazione a Lui? Non un’azione ma uno stato. Preghiera di pura adesione dei mistici. Orazione litanica o giaculatoria, perfettamente gratuita, prediletta da tutti i santi. Mio Dio e mio tutto, ripetuto da Francesco d’Assisi, faccia a terra, durante una intera notte. A chi voglia rituffarsi nei misteri antichi dell’orazione e ritrovarne la meravigliosa freschezza, può bastare una lunga lettura dei Racconti di un pellegrino russo, libro che ha servito e serve ancora, del resto, al catecumenato spirituale di molti ortodossi. Dispiegati nella narrazione, poi analizzati nei dialoghi egli troverà le premesse, gli sviluppi, gli effetti portentosi della Preghiera: sull’orante stesso, corpo e anima, su coloro che incontra, persino su chi faccia questa orazione senza sapere quel che faccia, come quel bambino costretto alla recitazione del Nome dal frustino dello zio, persino sui lupi e sugli elementi, perché, osserva padre Hausherr, la preghiera perpetua riconduce allo stato di innocenza primitiva, compresa la felicità di questo stato e il suo impero sulla natura. Resta l’enigmatico precetto che è il cardine su cui ruota non il Pellegrino soltanto ma tutta la contemplazione bizantina: discendere dentro il proprio cuore, riportare la mente nel cuore, ricondurre l’attenzione dalla mente nel cuore, perché là dentro dimora Iddio e là dentro bisogna incontrarlo.                                                                                                            Sembra il rovescio perfetto dell’uscire dall’io della mistica occidentale, del suo gettare il cuore e la mente in Dio dimenticando il corpo dietro di sé come una casa deserta. Talché è dell’Occidente il rapimento estatico che trae l’anima fuori dai sensi, la levitazione che svelle il corpo da terra quasi a fargli seguire la mente scoccata in alto. In Oriente, il corpo inabitato da Dio nel segreto del cuore si accende di luce e quasi di gloria, come quello di san Serafino di Sarov, che rifulse come un sole dinanzi agli occhi di un atterrito signor Motovilov. Ma poiché in tali dimensioni non vi è alto né basso non fuori né dentro, e il centro del cuore non è altra cosa dall’infinito dei cieli, né l’atomo dalle galassie, e le parole perdono ogni precisa direzione, le due esperienze non sono in realtà due ma una sola. Si potrebbe parlare di un doppio e simultaneo movimento dello spirito che si ritrae cercando Dio nella segreta stanza del cuore e trova in quel centro l’infinito nel quale lanciarsi. Esistono d’altra parte reciprocità misteriose, ed è affascinante riascoltare, nella melodiosa teologia di una piccola carmelitana francese del secolo XIX, Elisabeth de la Trinité, la pura dottrina dei Padri orientali tale quale fu instillata al Pellegrino: La mia occupazione è rientrare nel mio intimo cuore e perdermi in Coloro [le Tre divine Persone] che vi abitano. Seppellirmi nel più profondo dell’anima per trovarvi Iddio. Basta che io mi raccolga per trovarlo qui, dentro di me, ed è tutta la mia felicità. È il segreto che ha trasformato la mia vita in un paradiso anticipato: credere cioè che un essere che si chiama l’Amore abita in noi ad ogni istante del giorno e della notte e che egli ci chiede di vivere in società con lui.                                                                                                  Così la grande stirpe russa degli iurodivi2 e degli stranniki3, i vagabondi e folli per amor di Dio, ha la sua testimonianza occidentale, più ancora che negli antichi pellegrini e romei quali Rocco di Montpellier, in quel gaudioso, tenero ed inflessibile accattone perennemente errante di luogo in luogo, da Compostella a Bari, da Loreto a Montserrat e di basilica in basilica romana fino a morire sui gradini di una di esse, Benedetto Labre: tra le cui reliquie, puri stracci irrigiditi dal fango,  sono un rosario e due libri: il Breviario e le Vite dei Santi Padri.                                                                                                                                 Quei Padri stessi che il Pellegrino ritrova nella Filocalia. Quelle Vite che, tramandate da scribi greci, copti, siriaci, attraverso Bisanzio e la letteratura ecclesiastica slava fondarono in qualche modo lo stile narrativo puramente russo, dal Pellegrino a Gogol a Dostoevskij a Cekhov. Stile narrativo che non ha l’aria di voler finire se molto della sua monumentale innocenza e dignità troviamo ancora nel linguaggio liturgico di Pasternak, nei brevi apologhi severi di Solzenitzin, nei bianchi fogli di taccuino di Andrej Siniawski.

Note:

1. Sono i monaci eremiti del Monte Athos                                                                                                              2. Sono gli stolti di Dio, asceti russi che abbandonano il mondo alla ricerca della sapienza divina.  Vestiti di panni logori e consunti, si cibano di quello che trovano e praticano lunghi digiuni. In pubblico si comportano come dei folli, per rimanere in solitudine senza cedere alle tentazioni del mondo, mentre in solitudine vivono santamente e saggiamente.                                                                                                      3. Sono gli appartenenti ad una setta scismatica della chiesa ortodossa, di stampo apocalittico, i cui appartenenti rifiutavano ogni autorità laica, il denaro, il matrimonio, ed anche il battesimo ortodosso, seguendo i canoni di una purezza primigenia perduta e da ritrovare.

Questa voce è stata pubblicata in Il senso religioso del pellegrinaggio, Racconti pellegrini. Contrassegna il permalink.

Rispondi