di Maurizio Minchella A chiudere la cattedrale non c’era riuscito nemmeno Al-Mansor, il leggendario caudillo musulmano che tra il 977 e il 1001 intraprese ben 56 campagne contro i Regni cristiani, tutte vittoriose, stando alle cronache. La più prestigiosa e la più leggendaria di queste fu quella intrapresa nei mesi di luglio ed agosto del 997. Partito da Cordoba, percorse con le sue truppe quella che verrà poi chiamata la Via de la Plata, fino a giungere in una Santiago di Compostela deserta, i cui abitanti, ieri come oggi, erano preventivamente fuggiti o si erano rintanati nelle loro case. Per i Mori colpire Santiago equivaleva a colpire al cuore la Spagna cristiana e la Chiesa. Rappresentava l’impresa delle imprese, la più difficile e la più epica in assoluto.
I Mori sapevano quanto fosse connaturata la devozione degli Spagnoli verso l’Apostolo, e quanto questa ne sancisse l’identità di popoli e di culture uniti dalla stessa fede. La conquista di Santiago valse ad Almanzor, come recita la traduzione del suo nome in castigliano, la gloria imperitura presso il suo popolo, che lo canterà con questo epitaffio inciso sulla sua tomba: Le sue imprese ti parleranno di lui/come se lo stessi vedendo con i tuoi occhi/Per Dio, non verrà mai più al mondo uno come lui/né nessun altro lo eguaglierà mai nel difendere i confini.
Santiago era deserta; il saccheggio e gli incendi celebravano il trionfo della mezzaluna in terra cristiana. Quasi nulla venne risparmiato, a parte la tomba dell’Apostolo. La leggenda vuole che al cospetto di san Giacomo la spada del Moro miracolosamente si abbassò, e l’emissario del califfo rivolse l’attenzione al bottino che più gli stava a cuore: le 11 campane della cattedrale, quelle che chiamavano a raccolta il popolo compostelano e la cristianità tutta, i cui suoni erano secondi solo a quelli che provenivano dai campanili delle chiese di Roma. Il compito di portarle a Cordoba, dove sarebbero state utilizzate come lampade per la moschea locale, fu forzosamente affidato ai prigionieri cristiani catturati in Galizia. Le campane ritornarono a Compostela nel 1236 grazie a re Fernando III Il Santo, cavaliere di Gesù Cristo, servo della Santissima Vergine e alfiere dell’apostolo Giacomo, come recitava la sua insegna. Il sovrano, espugnata la città andalusa, riportò in pellegrinaggio il pesantissimo bottino alla sua sede originaria, dove venne poi fuso per forgiare l’attuale Doña Berenguela, la grande campana che si staglia nel campanile della cattedrale dopo il suo rifacimento barocco.
La leggenda vuole che accanto alla tomba di san Giacomo, quando vi fece irruzione Almanzor, vi era, in ginocchio, il vescovo di Santiago, san Pedro de Mezonzo, al quale viene attribuita la composizione della Salve Regina, redatta proprio in prossimità dell’attacco musulmano a Compostela, per chiedere ausilio e protezione alla Vergine Maria. Almanzor avrebbe chiesto al monaco la ragione della sua presenza in cattedrale e san Pedro de Mezonzo gli rispose che era lì per onorare san Giacomo. La risposta disarmò l’invincibile condottiero, il quale avrebbe dato ordine di lasciare in libertà il vescovo e di non profanare la tomba dell’Apostolo.
In questi giorni di desolazione questa figura ci riporta ad altri flagelli, ad altre figure ieratiche che in momenti simili, seppure diversi, di grande sofferenza, avrebbero portato la luce nelle nostre strade e nella nostra diocesi, qualche secolo dopo. A chiese distrutte, mutilate e a città devastate, simbolo di una polis vinta e sconfitta, hanno sempre corrisposto figure di uomini in piedi che non hanno mai vacillato nella loro fede. Milano ha conosciuto la luce di san Carlo Borromeo, che nella famosa peste del 1575, così viene raccontato dal suo biografo Antonio Sala:
Cresciuto il male a dismisura, si consigliava all’Arcivescovo che non si esponesse, ma si tenesse in luogo sicuro, e di là provvedesse con buoni ordinamenti e rimedii. Una congregazione di uomini pii, dotti, e prudentissimi, di ciò consultata, sentenziò, ch’egli non era obbligato con pericolo della vita a servire gli appestati; e questo gli fu scritto anche da Roma. Ma non istette pago il santo Arcivescovo a quelle decisioni, e loro oppose le omelie e le epistole di chiarissimi e santi vescovi che esortavano a fare diversamente. Risposero, «quelli essere termini di perfezione,» non d’obbligo necessario; e Carlo «a questi dunque, conchiuse,» m’appiglierò, imperocchè lo stato del vescovo è stato di perfezione e preparandosi, ove fosse occorso, alla morte, fece il suo testamento, lasciando erede l’Ospital maggiore di Milano.
Andò subito al Lazzaretto e vedutane la grande miseria, comandò che senza indugio vi portassero la maggior parte de suoi mobili, perfino il suo letto, e che di sua casa ogni dì si mandassero i viveri che facevano di bisogno. Spogliatosi di tutti gli argenti, li mandò alla zecca per farne denaro, e fe raccogliere elemosine per la città, per le campagne, ed anche fuor di provincia. Spedì alle tre valli, soggette pel temporale agli Svizzeri, onde averne aiuti di sacerdoti e di laici; sapendo che quelle genti nulla temeano della peste e del conversare cogli appestati. Ricorse parimenti ai corpi regolari, che pronti accorsero con sua grande consolazione. Esortò i secolari a prestarsi in un’opera di tanta pietà, e non pochi volonterosi risposero alla sua chiamata. Scelse nella sua famiglia i più coraggiosi e prudenti perchè gli fossero compagni se gli accadesse di trattare coi sospettati o cogli infetti del male, e gli altri volle che si tenessero guardati.
Domandò al Papa per la sua Chiesa, per gli appestati e per sè, molte facoltà, privilegi e indulgenze, e che nel pericolo di tutta l’ecclesiastica sua provincia scrivesse a vescovi di rimanersi ciascuno alle loro sedi, e di vegliare al loro gregge. Impetratene lettere che confortavano il popolo eccitandolo alla preghiera, le pubblicò insieme con più lettere e sermoni de santi Padri scritte per muovere i popoli travagliati di peste alla rassegnazione, alla pietà, alla carità verso i poveri.
L’epidemia successiva, quella del 1630, è la famosa peste manzoniana descritta nei Promessi Sposi, nella quale spiccano altre figure epigone di san Carlo e della tradizione dei martiri cristiani e milanesi in particolare. Tra queste ricordiamo fra Cristoforo, con tutta probabilità il cremonese Lodovico Picenardi, morto nel lazzaretto di Porta Venezia mentre prestava soccorso corporale e spirituale agli appestati e padre Felice Casati, commissario dello stesso lazzaretto, coadiuvato nella sua opera da gran parte del clero e da un grande numero di laici. Memorabile il discorso che ascoltò il buon Renzo, proprio mentre si scoprì diviso tra Lucia e don Rodrigo, per quel misterioso disegno della Provvidenza che vuole trarre tutto al bene, pronunciato al termine della processione dei guariti, appena fuori la porta Orientale:
– Diamo un pensiero ai mille e mille che sono usciti di là –; e, col dito alzato sopra la spalla, accennava dietro sé la porta che mette al cimitero detto di san Gregorio, il quale allora era tutto, si può dire, una gran fossa: – diamo intorno un’occhiata ai mille e mille che rimangon qui, troppo incerti di dove sian per uscire; diamo un’occhiata a noi, così pochi, che n’usciamo a salvamento. Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia! Benedetto nella morte, benedetto nella salute! Benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perché l’ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall’afflizione, e infervorato dalla gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente, che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l’impieghiamo nell’opere che si possono offrire a Lui? Se non a fine che la memoria de’ nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi? Questi intanto, in compagnia de’ quali abbiamo penato, sperato, temuto; tra i quali lasciamo degli amici, de’ congiunti; e che tutti son poi finalmente nostri fratelli; quelli tra questi, che ci vedranno passare in mezzo a loro, mentre forse riceveranno qualche sollievo nel pensare che qualcheduno esce pur salvo di qui, ricevano edificazione dal nostro contegno. Dio non voglia che possano vedere in noi una gioia rumorosa, una gioia mondana d’avere scansata quella morte, con la quale essi stanno ancor dibattendosi. Vedano che partiamo ringraziando per noi, e pregando per loro; e possan dire: anche fuor di qui, questi si ricorderanno di noi, continueranno a pregare per noi meschini. Cominciamo da questo viaggio, da’ primi passi che siam per fare, una vita tutta di carità. Quelli che sono tornati nell’antico vigore, diano un braccio fraterno ai fiacchi; giovani, sostenete i vecchi; voi
che siete rimasti senza figliuoli, vedete, intorno a voi, quanti figliuoli rimasti senza padre! Siatelo per loro! E questa carità, ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà anche i vostri dolori. Qui un sordo mormorìo di gemiti, un singhiozzìo che andava crescendo nell’adunanza, fu sospeso a un tratto, nel vedere il predicatore mettersi una corda al collo, e buttarsi in ginocchio: e si stava in gran silenzio, aspettando quel che fosse per dire. – Per me, – disse, – e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero. Se la pigrizia, se l’indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevol tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandolo; perdonateci! Così Dio rimetta a voi ogni vostro debito, e vi benedica –. E, fatto sull’udienza un gran segno di croce, s’alzò.
Rileggiamo queste pagine e queste storie dopo aver scorso il laconico comunicato con il quale l’Arcivescovado di Santiago de Compostela ha disposto per la prima volta, nella sua storia più che millenaria, la chiusura della Cattedrale che contiene le ossa del Protomartire tra gli Apostoli:
Seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie, dalle 12:00 di venerdì 13 marzo 2020, la Cattedrale di Santiago chiude le sue porte ai visitatori, fino a nuovo avviso. I diversi lavori di restauro in corso nel complesso della cattedrale continueranno il loro normale sviluppo. Vi ringraziamo per la comprensione.
Duemila anni di storia, di fede, di vite che restituivano alla terra sangue, lacrime e sudore mentre gli occhi e il cuore rimanevano saldamente fissi a guardare il cielo, nella certezza che tutto si sarebbe ricomposto nella Gloria, oscurati dal cartello: we are woking for you, quasi che la cattedrale sia un ufficio pubblico, simile a tutti quelli nei quali ci imbattiamo ogni giorno nell’estenuante cammino della vita quotidiana. L’Arcivescovo Julián Barrio Barrio ravvisa nel peccato di superbia, nella sfida faustiana dell’uomo moderno a Dio, la radice del male che uccide nel corpo e ferisce nell’anima la nostra generazione, che si ritrova all’improvviso nuda, come accadde ad Adamo, e prigioniera del mondo che ha creato; un mondo che si sgretola inesorabilmente divorato da un virus invisibile e velenoso come un serpente, sfuggito alla pretesa contemporanea di poter controllare tutto.
Dopo la Cattedrale, ha chiuso i battenti anche la Basilica del Pilar a Zaragoza, e a ruota tutti gli hospitales e gli albergues dei vari Cammini, rimasti vuoti come lo erano solo qualche decennio fa. Mancano così all’improvviso pellegrini ed operai evangelici, (Lc. 10, 1-2), costretti loro malgrado a chiudere le porte delle chiese, mentre per quelli muniti di mascherine e di elmetti le porte non si chiudono mai, nella mondana illusione che prima o poi tutto torni come prima. Ma sarà davvero così? San Giacomo promise nella visione in sogno a Carlo Magno, riportata nel Libro V del Codex Calixtinus, che alla sua tomba si sarebbero recati in ogni tempo pellegrini provenienti da ogni nazione. Le porte della Cattedrale certamente riapriranno, il cammino si ripopolerà, ma nulla sarà con tutta probabilità come prima. Dopo una Quaresima contrassegnata dall’incubo della morte e della quarantena, arriverà come sempre la Pasqua, Pasqua di Resurrezione. Arriverà anche per il Cammino, anche per i pellegrini che torneranno ad essere tali e non più avidi viaggiatori in cerca di emozioni, ma consapevoli cercatori protesi verso la meta. Ce lo fanno intendere san Pedro de Mezonzo, san Carlo Borromeo, fra Cristoforo e padre Felice Casati, insieme ad un innumerevole schiera di santi e di pellegrini che sono di guardia davanti alle nostre chiese e alle nostre Cattedrali, a voler custodire l’antica fede. Sotto il loro sguardo l’homo viator tornerà ad essere necessariamente anche homo faber e come dopo l’Anno Mille il pellegrino sarà nuovamente chiamato a rendere visibile la Civitas Dei, nella quale la vita è arte e l’arte è vita. Così come fece Mastro Mateo quasi mille anni fa rappresentando il Portico della Gloria, che per quanto oggi nascosto ai nostri occhi, continua a ricordarci nel segreto del nostro cuore, insieme alle mille storie e ai mille miracoli che le pietre raccontano, qual è la strada che vale la pena percorrere. Una strada che nulla e nessuno potrà mai chiudere e cancellare per sempre.