di Maurizio Minchella
I villaggi della Galizia sono profondamente diversi da quelli delle regioni che i pellegrini diretti a Compostela hanno attraversato nei giorni o nelle settimane precedenti. Carichi di storia, di arte, di una cultura che sembra ancora viva, i villaggi che si susseguono dai Pirenei fino al Cebreiro sembrano usciti dai libri di storia, se non da libri di fiabe o di letteratura epica. La Galizia, bucolica e nebbiosa, scenario naturale per il fantasy ed il mistero, nelle sue più variegate sfaccettature, relega il suo fascino alle sembianze naturali nelle quali è immersa. Il quadro sembra capovolgersi: se prima, nelle lande desertiche e sconfinate, era l’uomo a conferire ad esse vita e
bellezza edificando borghi e città che sono libri aperti, che trasmettono una cultura e una visione del mondo che non temono il contingente, innestati come sono nell’eternità, i villaggi galiziani sembrano farsi piccoli davanti alla dirompente vitalità di quella parte del creato che sembra svettare ben al di sopra delle vicende umane. Le case, disposte rigorosamente lungo il cammino, sembrano fungere da segnavia al pellegrino ormai prossimo alla meta. C’è poco spazio per l’arte, per l’ingegno umano, che nei pressi della città santa fanno un passo indietro, quasi ad inchinarsi al passaggio del pellegrino, che come alter Christus, pregusta la dolcezza del paradiso ormai quasi svelato, nella maestosa cornice della fitta vegetazione che lo accompagna nei suoi ultimi passi.

Puente de Furelos
E’ raro trovare in questa terra, prima della meta santa, espressioni del pensiero umano che tocchino il cuore del pellegrino o del viandante. Ma il ponte di granito medievale a quattro archi che attraversa il fiume Furelos, già ricordato da Aymeric Picaud nel Codex Calixtinus, predispone l’animo del pellegrino al subitaneo incontro con un’opera posta nella chiesa di san Xòan, che si trova nella località che dal fiume che la bagna trae il nome. E’ il Cristo di Furelos, un crocefisso ligneo che si staglia nella pala posta nell’altare di destra. E’ particolarmente espressivo ed ha una peculiarità che lo rende oggetto di grande venerazione, ed anche di commozione, da chi lo osserva con la dovuta disposizione d’animo. Il corpo di Cristo è confitto da due chiodi: uno ai piedi e l’altro alla mano sinistra. La mano destra è libera e rivolta verso il basso, quasi a cercare quella del penitente che a Lui si affida.
In Spagna ci sono due immagini cristiche molto simili a questa, più manieriste e di minor intensità drammatica: quella molto famosa del Cristo de la Vega di Toledo, e quella del Cristo di Fuentelcarnero a Zamora, del XVI secolo, proveniente dal monastero di Valparaiso. Il Cristo de la Vega di Toledo trae origine da una bella leggenda che vede protagonisti due innamorati, Diego e Ines, che si devono lasciare per via della guerra delle Fiandre alla quale Diego dovrà prendere parte. Ines richiede all’innamorato la solenne promessa di matrimonio ed esige che venga proferita nell’ermita de la Vega, dinanzi al Crocefisso. Così avvenne; il giovane partì, e la trepida attesa del suo ritorno da parte di Ines durò più di due anni. Il tempo non sempre è galantuomo e Diego finge di non riconoscere la sua innamorata di un tempo. Lei non si arrende ad un destino non troppo infrequente e ottiene di dirimere la vicenda davanti a un giudice. In assenza di testimoni Diego sembra averla vinta facilmente, ma Ines afferma di averne uno da presentare a suo favore. Il giudice, stupito davanti all’inaudito coinvolgimento del Cristo ligneo, non nega comunque alla giovane questa opportunità. Tutta la comunità si reca nell’ermita e il Cristo, interrogato dal giudice sul giuramento avvenuto in quel luogo, dopo qualche istante di silenzio, staccò il braccio destro dalla Croce, posando la mano sugli atti del giudizio, dicendo: Lo giuro. I due giovani rinunciarono quindi alle lusinghe del mondo, e presero la via del convento.

Cristo de la Vega de Toledo
Una leggenda altrettanto bella sembra aver dato vita al Cristo di Furelos. Si racconta che in tempi lontani un giovane di Melide era solito confessarsi nella chiesa del villaggio galiziano dal medesimo sacerdote. Il peccato che questi confessava d’abitudine doveva essere grave, ma il sacerdote assolveva il ragazzo, ricordandogli come la misericordia divina poteva operare quando il pentimento del peccatore era sincero e si accompagnava al proponimento di non cadere mai più in quel peccato. Nonostante la sincerità delle intenzioni, il giovane tornava frequentemente a Furelos a farsi perdonare lo stesso peccato commesso. Il sacerdote, spazientito, minacciò un giorno di non dargli più l’assoluzione qualora fosse tornato da lui a causa di quella colpa. La carne fu ancora una volta più pronta dello spirito e il giovane si presentò nuovamente davanti al confessionale del prete di Furelos. Questi, udito per l’ennesima volta il giovane accusarsi dello stesso peccato, gli ricordò la promessa fatta e lo congedò invitandolo a non farsi mai più vedere in quella chiesa. Il ragazzo fece per uscire sconsolato e passò davanti al Crocefisso, fissandolo con sguardo filiale, quasi ad invocargli l’assoluzione negata. Mentre si stava avviando verso l’uscita, il silenzio della chiesa venne rotto da queste parole: Io ho dato la vita per questo mio figlio, quindi se non lo vuoi assolvere tu, lo assolvo Io!
La voce proveniva dal Crocefisso posto nell’altare laterale, che subito dopo prese a muoversi. Il braccio destro si staccò dal legno al quale era inchiodato e si abbassò sul capo del penitente, impartendogli la benedizione col segno della Croce, accompagnata da queste parole: Io che sono morto e risorto anche per te ti assolvo dal tuo peccato, nel Nome del Padre, Nel nome del Figlio e nel Nome dello Spirito Santo. Da allora il Cristo di Furelos accoglie allo stesso modo penitenti locali e pellegrini. Per questi ultimi la preghiera e la contemplazione davanti al Cristo assumono un’intensità particolare. Giunto quasi al termine della lunga e dura ruta jacopea il pellegrino riconosce nell’opera quasi portata a termine l’atto di espiazione per i propri peccati e al contempo sperimenta l’abbandono totale e fiducioso alla divina misericordia, unica ancora di salvezza per tutti i figli di Dio, contaminati dal peccato. Il Cristo di Furelos si innesta nell’anima mistica del cattolicesimo ispanico e riporta non solo a santa Teresa d’Avila e a san Giovanni della Croce, ma anche al celeberrimo Marcelino pan y vino di José María Sánchez Silva, portato sul grande schermo da Ladislao Vajda nel 1958.
La scultura lignea si deve ad uno scultore di Furelos, Manuel Cagide, con rinomata bottega a Santiago, il quale nel 1950 ne fece dono alla parrocchia della sua terra, in sostituzione della copia precedente che andò perduta.